Donne e lavoro: perché il divide di genere non aiuta?

Donne e lavoro: perché il divide di genere non aiuta?

In quest’ultimo anno abbiamo visto l’effetto della campagna #metoo. Donne famose e di successo hanno trovato nel movimento la forza di denunciare le violenze fisiche e psicologiche di uomini potenti: il clima è ancora pesante, le donne di #metoo sono state accusate da altre donne di essere ipocrite e di non saper distinguere un corteggiamento da un abuso. Per questo la cosa più interessante degli Stati Generali della TV delle ragazze sono stati proprio i mini tutorial per aiutare gli uomini (e forse anche le donne) a capire quando si superano i limiti.

Le donne stanno quindi rafforzando il proprio ruolo nella società?

Non esattamente. Secondo l’edizione del Global Gender Gap 2018, al ritmo attuale di cambiamento, ci vorranno 108 anni per chiudere il divario di genere complessivo e 202 anni per avere la parità sul posto di lavoro.

La nota positiva è che rispetto al 2017, anno in cui il divario di genere era addirittura aumentato, nel 2018 c’è stato un miglioramento marginale, soprattutto nell’ambito economico in cui si è ridotta la distanza verso il reddito degli uomini.

Le donne stanno uscendo dal mondo del lavoro a un ritmo più elevato, perché l’automazione ha un impatto maggiore sui lavori tradizionalmente svolti da loro (come già previsto da un altro rapporto OCSE sul futuro del lavoro) e come se non bastasse, sono sotto rappresentate nei settori più promettenti dell’economia che richiedono competenze e conoscenze STEM (scienza, tecnologia, ingegneria e matematica).

Secondo il Women in Digital scoreBoard della UE, il rapporto fra specialisti ICT è 1 donna su 6 e 1 su 3 per laureati STEM, e nel settore ICT le donne guadagnano quasi il 20% in meno rispetto agli uomini. Finlandia, Svezia, Lussemburgo e Danimarca sono Paesi con un più alto punteggio per Women in Digital, mentre Bulgaria, Romania, Grecia e Italia registrano il punteggio più basso.


Divario di genere: ancora?

I report OCSE sul divario di genere registrano un peggioramento complessivo dell’Italia nel triennio 2016 al 2018: siamo passati dalla posizione 50 alla 70 su 149 Paesi (ma nel 2017 eravamo alla 82). Questo numero è il risultato di vari indicatori organizzati in 4 macro aree: partecipazione all’economia, partecipazione politica, educazione e condizione sanitaria.

L’educazione è l’area dove il divario di genere è minore in tutti i Paesi esaminati: forse un po’ dobbiamo ringraziare Malala Yousafzai, premio Nobel nel 2014, quando aveva 15 anni, che ha rischiato la vita per affermare il suo diritto e quello di tutte le donne all’educazione. Se non imparano a leggere e scrivere, le donne sono doppiamente emarginate perché non possono usare Internet: secondo il report sul mobile gender gap, nei Paesi a basso reddito, le donne che possiedono uno smartphone sono il 10% in meno degli uomini e il 23% in meno ad accedere alla Rete. La barriera principale all’uso mobile di internet è la mancanza di competenze.

Per l’Italia le studentesse sono a rischio maggiore di dispersione scolastica rispetto ai loro colleghi maschi: le donne adulte con licenza di scuola primaria e secondaria sono un po’ meno degli uomini, tranne che per l’educazione superiore, dove nella fascia 25-54 sono laureate il 17.4 delle donne rispetto al 12.7 degli uomini. Ma se guardiamo al personale impiegato nella ricerca, le donne sono un po’ meno della metà degli uomini (34,6 verso 65,4). Questi dati sono abbastanza costanti nel tempo e non sono certo una specificità italiana: una recente ricerca pubblicata da Nature, dimostra che negli Stati Uniti per metà delle donne la nascita del primo figlio coincide con la fine del lavoro a tempo pieno.

Intelligenza Artificiale: ancora poche le donne che ci lavorano?

L’approfondimento del Global Gender Gap 2018 è rivolto alle nuove professioni legate al settore dell’Industria 4.0 e in particolare all’Intelligenza artificiale, considerata la tecnologia più promettente del settore. Secondo l’indagine Linkedin, le donne che lavorano in questo settore sono il 22% a confronto del 78% di uomini: e qui finalmente una buona notizia per l’Italia, che insieme al Sud Africa e a Singapore ha la quota più alta di donne nel settore, ben il 28%!

Secondo gli esperti, l’intelligenza artificiale avrà un impatto sull’industria pari a quello che ha avuto l’elettricità nel secolo scorso e ogni aspetto dell’intelligenza che possa essere descritto in modo preciso potrà essere simulato alle macchine: queste due citazioni sono interessanti perché a riportarle è una venture capitalist di 14 anni, Taarini Kaur Dang, che scrive su Forbes e spiega perché si tratta di una tecnologia così pervasiva e importante che ci cambierà la vita.

Abbiamo bisogno di cambiare vita, perché il nostro modello attuale non è sostenibile: secondo l’OMS si prevedono 250 mila morti ogni anno per i prossimi 20 anni, con intensificarsi di ondate di calore, incendi causati dalla siccità, piogge intense, allagamenti costieri, nuove malattie causate dalla pessima qualità dell’aria e l’Italia per varie cause è particolarmente esposta a questi rischi. Greta Thunberg ha 16 anni ed è un’attivista che con caparbietà è riuscita a far arrivare la sua voce fino ai piani più alti del potere mondiale. Lei ha le idee chiare su come il tema del riscaldamento globale sia un problema economico e di equità.

Il progetto europeo Smart Space a cui collaboro, ha l’obiettivo di aiutare le aziende nella transizione verso la manifattura intelligente: in quasi tutti gli ambiti produttivi, le donne sono la maggioranza nel settore del controllo qualità, perché hanno una manualità più precisa ma come tutti i settori dove la presenza umana è critica ed intensiva, ci sono ampi spazi per ottimizzare, ad esempio grazie a sistemi di visione artificiale. La riduzione dei costi e una maggiore efficienza, grazie all’uso delle tecnologie, spesso è quello che fa la differenza fra un’azienda viva ed una che chiude.

Il futuro è nelle mani di ragazze come Malala, Taarini e Greta che avranno il difficile compito di conciliare le sfide economiche, ambientali e sociali, ma che hanno già vinto la loro prima battaglia: quella di farsi ascoltare.

Articolo pubblicato su TechEconomy l’8 marzo 2019

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