Scuola e lavoro devono parlare la stessa lingua?

Scuola e lavoro devono parlare la stessa lingua?

[:it]La Ministra Valeria Fedeli ha presentato nella sua audizione alle camere del 27 gennaio fa le linee programmatiche del suo dicastero per i prossimi mesi. La Ministra ne ha ripreso alcuni passaggi nel suo recente intervento a Torino, in occasione del 60 anniversario della Scuola di Amministrazione Aziendale il 24 febbraio 2017, durante l’incontro intitolato “Scuola e lavoro, parlano la stessa lingua?”

L’incontro è stato aperto dal Rettore dell’Università di Torino e dalle Assessore all’Istruzione della Regione Piemonte e della Città di Torino. La presenza di tre donne è stata lo spunto per collegarsi alla proposta di riequilibrare i programmi scolastici inserendo eccellenze femminili. Nell’audizione è indicata l’intenzione di “far crescere il rispetto fra donne e uomini”: non si tratta di una questione secondaria in questo momento storico, in cui leader mondiali come Putin e Trump approvano leggi mirate a ridurre l’autonomia delle donne e in Italia ci sono decerebrati che insozzano una persona splendida come Bebe Vio.

“Ponti spezzati” e “tessuti strappati” sono state le metafore utilizzate per indicare il rapporto fra il mondo dell’educazione e il mondo del lavoro, tema centrale dell’incontro. Lavoro e scuola non parlano la stessa lingua e forse non devono necessariamente farlo, ma devono condividere lo stesso obiettivo. Quale dev’essere l’obiettivo quindi? L’acquisizione di competenze spendibili nel mondo del lavoro? La formazione di cittadine e cittadini consapevoli? Si tratta di due obiettivi disgiunti?

Il dato più drammatico del nostro Paese è la disoccupazione giovanile che supera il 40%. Secondo l’ultimo rapporto OCSE, presentato a Roma il 15 febbraio, in Italia abbiamo pochi giovani (la popolazione con meno di 15 anni è il 14% contro il 18.3 della media OCSE), pochi laureati (17,5% contro il 33,6%), una spesa per studente universitario bassa ma al tempo stesso la più alta percentuale di laureati disoccupati. Le lauree professionalizzanti danno buoni risultati in termini di occupazione ma sono ancora poco diffuse – soprattutto fra le ragazze – come pure i contratti di apprendistato: educazione e scuola sono mondi ancora distanti.

L’Alternanza Scuola Lavoro (ASL), valutata molto positivamente dall’OCSE che a regime coinvolgerà 1 milione e mezzo di studenti delle scuole superiori (Licei inclusi, cosa che non trova tutti d’accordo) e che sarà estesa alle Lauree professionalizzanti, sembra essere uno strumento utile per ricostruire questo ponte spezzato. La Ministra Fedeli ha tenuto a sottolineare che l’obiettivo dell’Alternanza non è trovare un lavoro ma aiutare gli studenti a costruirsi competenza e conoscenza su mondi esterni. Non si può comunque ignorar il tessuto produttivo italiano, fatto prevalentemente di piccole e medie imprese che hanno limiti strutturali nell’accoglienza delle studentesse e degli studenti. E’ auspicabile che la cabina di regia dell’ASL utilizzi questa fase preparatoria per raccogliere dati ed esperienze, per capire cosa ha funzionato e cosa invece no, e che oltre a concretizzare rapidamente la promessa Carta dei diritti degli studenti in ASL, supporti le aziende e le scuole, nell’individuare modelli efficaci affinché ai ragazzi venga offerta una reale opportunità di crescita e non qualcosa di diverso.

Fedeli ha rivendicato il primato di questo governo nell’aver investito 3 miliardi nella scuola e aver affrontato la stabilizzazione dei precari. Mettere al centro le persone significa anche che il successo della Buona Scuola andrà misurato su quanto riuscirà a ridurre le diseguaglianze nelle scuole del Paese . Il richiamo all’Agenda 2030 delle Nazioni Unite e all’obiettivo 4 “Educazione di qualità” non deve far pensare solo ad un contesto globale, ma dovrà guidare l’azione del governo soprattutto verso quel milione di bambini e adolescenti in situazione di povertà economica ed educativa che si trovano prevalentemente in Campania, Calabria, Puglia e Sicilia.

Fra le molte cose non citate nell’incontro, il Piano Nazionale Scuola Digitale. Forse non è stato considerato un tema pertinente.

E’ necessario ribadire che gli investimenti in dotazioni tecnologiche, rischiano di restare sottoutilizzati. Non si può immaginare di fare una didattica innovativa che utilizzi tecnologie digitali senza una connettività adeguata (intesa anche come wifi in classe). Dare alle scuole l’accesso alle reti a banda larga a condizioni sostenibili è il primo investimento da fare e non si può pensare di lasciare alle singole scuole l’iniziativa, perché in alcuni casi non è strutturalmente possibile, per le condizioni di contesto.

Le resistenze culturali a cambiare il modo di fare lezione sono ancora molto forti ed è necessario un cambiamento culturale. Non è solo un problema italiano: nel suo libro The Class, Sonia Livingstone che ha seguito per un intero anno a Londra una classe di tredicenni a scuola e anche a casa per indagare il loro rapporto con il digitale, descrive lezioni in cui quando va bene la lavagna interattiva è usata come proiettore. A differenza di qualche anno fa, oggi gli insegnanti sanno utilizzare meglio strumenti digitali e per questo è necessario ragionare su modalità di sviluppo professionale diverse da affiancare alla formazione: si tratta di una sfida che deve passare anche attraverso nuovi modelli organizzativi e nuove figure professionali.

A Torino pur non essendo previsto uno spazio domande, è stata data la possibilità al coordinamento ricercatori precari di un breve incontro con la Ministra dopo la fine dell’evento. Rispetto e ascolto sono concetti ricorrenti nell’audizione e senza dubbio elementi necessari e fondamentali per quei ponti, che se non proprio spezzati, sembrano pericolanti.[:]

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